Capita spesso, se non sempre, di risalire all’infanzia per ritrovare quei momenti resi indimenticabili dalla combinazione di inesperienza e curiosità.
Una memoria ancora vuota di ricordi, destinata in futuro a riempirsi e svuotarsi continuamente, ma non disposta a dimenticare l’inizio di una storia ancora promettente.
Proprio da lì si comincia per raccontare la vita di Roy Halston Frowick nella serie Netflix Halston prodotta da Ryan Murphy, con un notevole Ewan McGregor. Precisamente il punto di partenza scelto è in Indiana, ad Evansville, nel 1938.
Un talento nato in tenera età, trasformato nel propulsore creativo di un personaggio diventato una celebrità nel settore della moda, dopo essere finito sotto la luce dei riflettori accesi dalla decisione della First Lady, Jacqueline Kennedy, di indossare uno dei suoi cappelli. Questo nuovo principio, dopo la breve premessa, porta ad un cambio di prospettiva, sufficiente per pilotare l’attenzione su un’epoca dominata dal cambiamento di usi e costumi, piena di opportunità e di protesta, sintomo di una vitalità abituata ad immaginarsi come ineguagliata nella storia. La vicenda interessata dal racconto non presta però troppa attenzione al contesto sociale, viene catturata di rimbalzo attraverso la parabola esistenziale del personaggio, i suoi amici e collaboratori come Liza Minnelli ed Elsa Peretti, e i suoi amanti: principalmente Victor Hugo, per inserire come discorso critico anche l’omosessualità o parlare del mondo dello spettacolo. La serie resta ancorata al destino del protagonista, eccentrico, disperato, trasgressivo, solito passare le serate al mitico Studio 54 di New York, assediato dalla tossicodipendenza e dal sesso.
E insieme a Halston si dispiega parallelamente il destino della sua azienda, sempre sul filo del collasso economico, con quel bisogno insoddisfatto di nutrirsi di uno sfarzo barocco trattato come sinonimo di bellezza, le spese astronomiche per la droga, i capricci mai placati, e un senso di vuoto spento dentro un altro bicchiere. Il percorso di affermazione del brand, fino a diventare un’icona distintiva di successo, coincide con una dolorosa e graduale crisi dello stilista: il marchio Halston ha una potenza capace di assorbire energia senza fine, talmente autorevole da cancellare l’uomo, insaziabile, e lasciarlo solo insieme ai propri fantasmi. La serie ripropone in definitiva (su uno sfondo biografico) il vecchio discorso di un’arte necessariamente libera e restia alle regole in contrasto a un capitalismo fedele a sé stesso e ai presupposti industriali sui quali è concepito, basato su una spietata concorrenza, e interessato solo al profitto.
Una società in grado di assecondare il bisogno dei tempi, di prevedere e favorire l’esplosione e il trionfo del prêt-à-porter, regalando un sogno di eleganza a portata di tutte le tasche, di disegnare sotto una spinta di ispirazione pragmatica, immaginare il colore di un profumo, dotato insomma di una versatilità molto affine al necessario multitasking contemporaneo, ipotizzato per funzionare in assenza di genio. Gli ambienti ricostruiti per descrivere questa parabola personale sono ovviamente case ed atelier arredati con gusto eccentrico, soprattutto lo studio rosso caratterizzato dal forte impatto monocromatico immerso nel cielo della città, osservata dai vetri impercettibili di un grattacielo. I costumi adeguati a respirare un’atmosfera impegnata ad uscire dall’anonimato, il mantra dell’apparire per distinguersi ed emergere, il passo prima di precipitare nell’appiattimento omologato del presente.
di Antonio D'Onofrio